mercoledì 26 febbraio 2014

Roberto Saviano: “Mi sono rovinato la vita”

Il sogno di qualunque giovane giornalista di razza potrebbe assomigliare al profilo di Roberto Saviano: uno sguardo fermo e un buon fiuto per le storie, abilità e simpatia per trattare con le fonti, coraggio per entrare nella tana del lupo e una penna in grado di trasformare qualsiasi reportage in letteratura di buon livello.

" io non credo che sia nobile aver distrutto la mia vita e quella delle persone vicine a me per cercare la verità. Visto da lontano può sembrare nobile: ah, che bella cosa. Però io, che l’ho fatto, non lo vedo come nobile"Se poi a 26 anni riesce a scrivere un libro come Gomorra che finora ha venduto oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo, il sogno sembra completo. Fino a quando si legge la dedica del suo nuovo lavoro, ZeroZeroZero, un viaggio di quasi 500 pagine nel traffico della cocaina da un sponda all’altra dell’Atlantico, un libro che in Spagna verrà pubblicato la prossima settimana dalla casa editrice Anagrama: “Dedico questo libro a tutti i carabinieri della mia scorta. Alle 38.000 ore passate insieme. E a tutte quelle che passeremo. Dovunque sarà”. Questa conversazione con Roberto Saviano (Napoli, 1979) ha avuto luogo nel seminterrato di un hotel di Roma, ovviamente sotto gli sguardi attenti dei suoi guardiaspalle.
Domanda: Dopo che la camorra (N.d.T.) l’ha condannata a morte, obbligandola a seppellirsi vivo, perché lei ha continuato a scrivere sugli stessi temi?

Risposta: Mi piacerebbe rispondere alla domanda con una frase retorica del tipo: continuo a scrivere perché credo nella verità, perché non sono riusciti a intimidirmi, mi sentirei però un po’ ridicolo perché dentro di me so che non è la verità. O meglio, perché la vera risposta è: sono ossessionato. Sono ossessionato perché dopo che mi sono imbattuto nella storia delle mafie non sono riuscito, neanche fisicamente, a non seguirla. Sapevo che, se avessi continuato a scrivere, la mia vita sarebbe andata sempre peggio. Non solo per via delle minacce, ma perché la maggior parte delle persone citata nel libro mi avrebbe denunciato per diffamazione. Però è più forte di me. È come una dipendenza. Una fissazione. Non è il semplice pensiero: è giusto lottare per la verità. Perché sono assolutamente convinto che…

D: Che è stato un errore?

R: Diciamocela tutta: io non credo che sia nobile aver distrutto la mia vita e quella delle persone vicine a me per cercare la verità. Visto da lontano può sembrare nobile: ah, che bella cosa. Però io, che l’ho fatto, non lo vedo come nobile. Anzi, mi dico: forse avrei potuto fare lo stesso con eguale impegno, con lo stesso coraggio, ma con prudenza, senza distruggere tutto. Invece sono stato impulsivo, ambizioso e mi sono rovinato la vita.

D: Fino a questo punto?

R: Bisogna tener presente che non posso disporre della mia vita senza chiedere un’autorizzazione. Non posso uscire né entrare quando voglio e nemmeno frequentare le persone che voglio senza doverle nasconderle per evitare le rappresaglie. A volte mi chiedo se non finirò in un ospedale psichiatrico. Sul serio. Ora ho bisogno di psicofarmaci per andare avanti, prima non ne avevo mai avuto necessità. Non ne abuso, però di tanto in tanto ne ho bisogno. È una questione che non mi piace affatto e spero che un giorno finirà.

D: Quindi è valsa la pena pagare un prezzo così alto?

R: No. E so che quando lo dico, qualcuno può pensare: che vigliacco. Vale la pena cercare la verità e arrivare fino in fondo, però proteggendosi. Nel mio cuore alberga una certezza drammatica: avrei potuto fare lo stesso senza rischiare tutto. Perché qual è il problema qui? Se si antepone un obiettivo, come la verità o la denuncia, a qualsiasi altra cosa della vita, si diventa un mostro. Un mostro. Perché tutte le tue relazioni umane e professionali sono finalizzate a ottenere la verità. Forse lo scopo è nobile, generoso, però la tua vita non è generosa. Le relazioni diventano terribili.

D: Perché?

R: Perché si deciso di sacrificare tutto sull’altare della verità. Quando ho cominciato a farlo non me ne sono reso conto. E nel libro lo dico: in nessun caso vale la pena rinunciare alla propria felicità per un obiettivo che consideri superiore. Vale la pena fare ciò che è giusto, cercando di tutelarsi.

D: Ha mai pensato di tornare indietro? Scrivere su altri temi?

R: È difficile. Forse ci proverò. Però il vero problema è che quando sei arrivato a una tale notorietà, se torni indietro rischi di buttare a mare tutto quello che hai fatto. E qui interviene la voce dell’ambizione: come faccio a sbarazzarmi di tutto questo lavoro, di tutto quello che ho ottenuto? E qui si inserisce un altro dibattito: tutto questo mi rende schiavo, e allo stesso tempo dà un senso alla mia vita. Anche se davanti a me c’è anche la sfida che non scrivo solo di criminalità . Voglio fare letteratura.

D: In ZeroZeroZero ci è riuscito.

R: Sì, credo di sì, il mio obiettivo è scrivere di cose reali in stile letterario. È stato difficile perché quando si parla dell’America Latina da qui si tende a vedere solo la parte sanguinaria, quella del massacro, come se tutto fosse un gran caos. Io invece ho cercato di dimostrare l’ordine messicano, non il disordine messicano. Il lato scientifico del tema. Non è stato facile.

D: Quali somiglianze ci sono fra il crimine organizzato in Messico e in Italia?

R: Moltissime. Molte di più che tra Colombia e Italia. Perché la struttura, la gestione del territorio è molto simile. Per questo ho cominciato il libro con una lezione che il boss italiano dà ai latino-americani di New York. In sostanza, li avverte: se volete il potere dovete sapere che un giorno lo pagherete. Se per caso avete immaginato che potete ostentare il potere e poi circolare liberi, vi sbagliate. La filosofia dell’infelicità è alla base di tutte le organizzazioni criminali.

D: Con il pretesto del libro è tornato a Napoli dopo molti anni. Cosa ha provato?

R: All’inizio avevo paura. Ho cercato di inventarmi qualsiasi cosa per andarmene. Mi preoccupava disturbare la città, la gente, che mi dicessero di smetterla. Invece ho incontrato migliaia di giovani felici di salutarmi, persone che volevano toccarmi e accarezzarmi, che mi prendevano le mani e mi dicevano: “Tranquillo, sei qui”. È stato emozionante. Prima ero tornato solo per andare in tribunale.

D: Come ha trovato la sua città?

R: Peggiorata. La crisi l’ha colpita di più. Il sogno del napoletano rimane quello di sopravvivere ed emigrare.

Tutte le parole di Saviano, anche le più drammatiche sulla sua vita, sono state pronunciate con il sorriso sulle labbra. (pubblicato il 16 febbraio 2014)

[Articolo originale "Roberto Saviano: “Me he arruinado la vida”" di Pablo Ordaz]

http://italiadallestero.info

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