mercoledì 19 febbraio 2014

Cento passi contro la camorra nel nome di don Peppe Diana

di Crescenzio Sepe

La sera del 20 marzo 2009, all’interno del Duomo di Napoli, davanti a centinaia di familiari delle vittime delle mafie, ho avuto il privilegio di celebrare una veglia di preghiera in memoria di tutti gli innocenti caduti per mano criminale, indossando la stola di uno dei martiri della nostra storia: don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe barbaramente ucciso dalla camorra il giorno del suo onomastico nel 1994. Erano giorni molto intensi quelli, per Napoli e la Campania. Il 21 marzo le strade di Napoli furono invase da un eccezionale corteo di 150mila persone per celebrare la XIV Giornata Nazionale della Memoria e dell’Impegno. Nel nome di don Peppe Diana e di tutte le vittime della violenza criminale, Napoli mostrò un volto nuovo, un segno tangibile di speranza e di riscatto, immortalato due anni dopo con l’istallazione, nei giardini di via Cesario Console, della Stele della Memoria. In quei giorni, Napoli e la Campania mostrarono che «Per amore del mio popolo non tacerò», lo scritto più noto di don Diana - diffuso nel Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana insieme ai parroci della foranìa di Casal di Principe - non è uno slogan o un atto di eroismo ma rappresenta piuttosto la linea di condotta che può e deve ispirare l’impegno di tutti, credenti e non. Le parole di don Diana sono quantomai attuali, nonostante siano passati più di vent’anni: «La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato». Eppure, proprio a partire dal suo esempio, tanti passi avanti sono stati fatti nel corso di questi anni nella creazione di una forte e valida coscienza civile sull’importanza del contrasto al crimine. Così come il sangue dei cristiani uccisi è diventato sorgente di vita, dal sangue delle vittime di mafia, i martiri moderni, nasce una coscienza di legalità, rappresentata in misura compiuta dall’impegno dei loro familiari, che non si arrendono e continuano a credere, nonostante tutto, in un futuro migliore per i figli della nostra terra. In questa stessa direzione si colloca l’attività della Chiesa, come certificato dal documento della Conferenza Episcopale Italiana «Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno», che ricorda come «le comunità del Sud hanno visto emergere luminose testimonianze, come quella di don Pino Puglisi, di don Giuseppe Diana e del giudice Rosario Livatino, i quali - ribellandosi alla prepotenza della malavita organizzata - hanno vissuto la loro lotta in termini specificamente cristiani: armando, cioè, il loro animo di eroico coraggio per non arrendersi al male, ma pure consegnandosi con tutto il cuore a Dio». Don Diana come tutti i martiri, così come tutte le vittime delle mafie, non sono stati messi a tacere per sempre. Il loro messaggio, la loro testimonianza, il loro senso di giustizia e verità continuano a profumare di vita, di speranza e di riscatto.
* Arcivescovo di Napoli
http://www.ilmattino.it

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