mercoledì 7 maggio 2014

Intervista a Saviano: «Accusano Gomorra ma a Scampia c’è più camorra di prima»

di Francesco de Core

Il professor Roberto Saviano è all’università di Princeton, Stati Uniti, per un corso su politica economica e crimine organizzato; lo scrittore Roberto Saviano, invece , è saldamente qui, in Italia: stasera, su Sky Atlantic, parte la serie tv «Gomorra», tratta dal best-seller che più di ogni altro ha fatto storia negli ultimi anni. Dodici puntate e già divisioni prima ancora della messa in onda. A Napoli, ma non solo.

Saviano, ci sono state molte polemiche sulla rappresentazione di Scampia - e, in generale, della città - nelle mani dei clan. Non pensa che inevitabilmente la descrizione di una parte di realtà così difficile e complessa possa diventare luogo comune, conformismo?
«Credo che ”luogo comune” o ”conformismo” sia giudicare un lavoro senza averlo visto. La maggior parte delle persone che hanno criticato la serie non sanno di cosa si tratta, non hanno visto tutto il percorso e, per loro stessa ammissione, non hanno visto nemmeno i due primi episodi proiettati durante l’anteprima. Abbiamo raccontato la complessità di questi territori».

Quindi il suo racconto va nella carne viva della realtà, senza pregiudizi?
«Guardi, da noi accade l’inverosimile. È come se Albuquerque, in New Mexico, si fosse ribellata al successo di ”Breaking Bad”. Come se Medellin si indignasse per la serie su Pablo Escobar. Non c’è scandalo, non c’è vergogna: è racconto, e dal racconto si riparte. La serie ”Gomorra” racconta la vita, le contraddizioni, i sentimenti, la ferocia di un territorio, che è anche altro, ma ci si sofferma su un segmento significativo, che la cronaca ha sfiorato e poi abbandonato. Albuquerque non è solo sintesi di droghe chimiche, la Colombia non è solo cocaina e Scampia non è solo camorra, ma il territorio non può dimenticare Paolo Di Lauro, la cui ombra è ancora terribilmente presente».

Crede che «Gomorra» tv - alla cui stesura lei ha partecipato attivamente - avrà un impatto diverso rispetto al film di Garrone? 
«A questa serie abbiamo lavorato molto: è stato un esperimento, volevamo costruire qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che è stato fatto in Italia sino ad ora. Sono sicuro che appassionerà il pubblico perché racconta storie di vita dentro le dinamiche criminali. Chi ha apprezzato il film sentirà il percorso affine, chi non l’ha amato vedrà una grammatica diversa con cui potrà provare a confrontarsi. Abbiamo voluto essere diversi da tutto ciò che si è visto...».

Quali le differenze con il film?
«Ci sono molte storie del libro che non erano state inserite nel film. La differenza sostanziale risiede nella forma narrativa. Nella serie ci si può prendere più tempo per descrivere un personaggio, per segnalarne le evoluzioni, i cambiamenti. Nel film, invece, i tratti devono essere più brevi: il quadro deve essere chiaro sin da subito per poi poter puntellare la trama. I personaggi nella serie respirano ed è impossibile percepire il loro ritmo da subito. Ci vorrà tempo».

Maradona ha pesantemente criticato la fiction prima di vederla... 
«Maradona conosceva i Giuliano di Forcella e forse non capirà la contemporaneità del fenomeno. Del resto credo che sia mal consigliato e male aggiornato. Resta un simbolo, il mio mito da bambino. Sul resto, meglio glissare...».

Ma se lei fosse uno dei tanti cittadini onesti di Scampia, come reagirebbe di fronte alla rappresentazione narrativo-giornalistica che si dà del quartiere? Non c’è il rischio del marchio a vita anche per chi non delinque? 
«Non è una serie tv a dare il marchio. Quanti morti continuano a esserci? Forse è stata aperta una università? Il Bronx da decenni attira investimenti e sta diventando un quartiere nuovo. Forse a Scampia è successo tutto questo e nessuno se n’è accorto? Il marchio non viene dato da una serie che racconta i meccanismi della realtà, così come non lo toglie l’omertà a cui si invita. Anzi, il racconto rende ancora più interessante il potersi relazionare con una realtà difficile e per questo stimolante. Non bisogna smettere di raccontare, ma creare opportunità, investimenti veri, portare università, distruggere il degrado, la sporcizia, l’abbandono. Non solo operazioni di polizia. E, soprattutto, è la serie o la realtà a dare il marchio? Questo è un gioco facile e furbetto. È il gioco di chi non fa nulla, assolutamente nulla per un territorio e scagliandosi contro Saviano acquista visibilità».

In generale qual è la funzione dell’arte rispetto al male? Non c’è il rischio di mitizzarlo a prescindere dalle intenzioni narrative e di costruire degli eroi? 
«Il male e il bene non devono avere quote prefissate: un’opera deve essere giudicata nella sua complessità e per la sua qualità. Non possiamo criticare Michael Herr perché in ”Dispacci” non ci ha raccontato il Vietnam dalla prospettiva dei soldati buoni. I personaggi di Balzac o di Dostoevskij non sono tanto migliori o tanto peggiori rispetto al grado di crudeltà o di magnanimità che mostrano. Qualunque opera si giudica nel suo complesso e non in base a una equa distribuzione di bene e male. È ovvio che il racconto del male sia affascinante, ecco perché bisogna tenersi lontani da semplificazioni e banalizzazioni. La rappresentazione del male è interessante perché mette in moto sentimenti che talvolta non credevamo di poter provare. Ecco perché la sfida è stata quella di fare in modo che non si generasse empatia, costringendo chi osserva a porsi domande: ma come fanno queste persone a uccidere e poi a vivere la quotidianità in maniera tanto naturale? Se io non sono così è perché sono codardo o coraggioso? Fino a che punto arriva la mia brama di soldi e di potere? Quante volte ho pensato, se l’ho pensato, di eliminare i miei nemici? Quante volte ho odiato come odiano loro? Non raccontare queste dinamiche vuol dire ritenere che la vita, che la nostra vita, non sia una questione di scelte. Di scelte continue. Di scelte quotidiane. Nulla ci è dato, non il denaro, non il potere, non la felicità. La complessità dell’arte porta a una complessità di reazioni, non al suo contrario, ovvero all’appiattimento».

È stato a Scampia anche in incognito nel corso di questi anni? E se sì, che impressione le ha fatto il quartiere rispetto a quando girava in motorino da cronista prima di scrivere Gomorra? 
«Sì, ci sono passato con la scorta senza che nessuno lo sapesse. Qualcosa è cambiato, ma la struttura no. Certo c'è una gestione diversa e le piazze di spaccio si sono spostate nell’entroterra campano ma nel complesso, se quella che mi chiede è un’impressione che prescinda dalla conoscenza dei fatti, non ho notato cambiamenti. Anzi, ho visto un incremento della presenza militare camorristica. I problemi poi restano gli stessi: disoccupazione, degrado, arretratezza culturale conseguenza della dispersione scolastica. E lo sforzo di alcune delle associazioni presenti sul territorio, di quelle che davvero lavorano».

E i manifesti contro Gomorra? 
«È interessante ragionare su questa vicenda. Chiunque conosco a Napoli ha fatto foto e me le ha mandate. Ma il punto non credo sia chiedere a me cosa ne penso e se ci sono rimasto male. Il punto è chiedersi quanti manifesti sono stati mai fatti con nomi e cognomi dei boss dopo gli ennesimi omicidi. Ogni volta che c’è stata qualche strage non ricordo Napoli tappezzata da manifesti in cui c’è scritto ”andatevene”. Mai letto manifesti di questo tipo. Mai. Omertoso io non lo sarò mai».

Com'è cambiato, se è cambiato, il suo rapporto con Napoli?
«Il rapporto con Napoli è un rapporto complesso. Mi manca tantissimo. A volte sogno di esserci tornato a vivere, sogno di camminare da solo senza scorta sul lungomare e la città è completamente vuota. Non c’è nessuno ma nel sogno non mi stupisco. A volte, invece, sogno di camminare terrorizzato attraverso la Pignasecca, che però è affollatissima, come sempre. Lì andavo a fare la spesa. Nel sogno compro zeppole e panzarotti, un polipo da cucinare con le olive, ma ho paura di essere scoperto. Sono camuffato, a volte ho i baffi, altre capelli e barba lunghi. Altre ho un passamontagna, addirittura. Nel sogno finisce sempre che vengo scoperto e allora inizio a correre. Mentre corro so di stare sognando, ma non riesco a fermarmi».

E De Magistris?
«Su De Magistris va fatta chiarezza. Anche nelle critiche. Parto dal presupposto che sia un sindaco onesto e che abbia sacrificato letteralmente la sua quotidianità. Credo che sia guidato da buone intenzioni, ma la sua prima fase non l’ho condivisa per nulla. Aveva avuto un consenso enorme che gli avrebbe permesso di poter adottare una politica più lungimirante. Si era presentato come libero da qualunque condizionamento, come l’uomo nuovo. Avrebbe fatto bene a puntare su figure chiave della sua giunta che invece ha allontanato in malo modo. Non credo stia aggiustando il tiro, del resto ora non ha nemmeno più il consenso che gli occorre per poterlo fare. E non ha compreso, sin da subito, che puntando sulle periferie si sarebbe potuto inaugurare un percorso nuovo. L’ennesima occasione persa per una città che di occasioni, invece, ne meriterebbe. Ma vediamo come proseguirà la sua esperienza...».

Tornando a «Gomorra» tv, nella serie è rappresentata la guerra tra vecchi padrini e nuovi boss. Molte aree della faida sono governate da giovani spietati. Com’è cambiata la figura del capoclan? Conta sempre di più il traffico (e anche il consumo) di droga? 
«Nella serie si racconta proprio questa sorta di conflitto generazionale. La camorra è l’unica organizzazione che crede nei giovani: rispetto a ’ndrangheta e Cosa nostra concede maggiore mobilità, tanto che anche ai ventenni è dato di ricoprire ruoli apicali. Il capoclan napoletano sta subendo una mutazione persino fisica: le sopracciglia ad ali di gabbiano, la depilazione, l'abbronzatura. C’è un’attenzione maniacale all’aspetto esteriore. I tronisti di ”Uomini e donne” sono i loro modelli, non hanno più le unghie lunghe ai mignoli, non vengono più da sottoculture, ma sono cresciuti guardando video su YouTube, con iPhone e Facebook. Ma il ”core business” non cambia, resta la cocaina».

Emerge sempre più nitido e forte il ruolo delle donne in ruoli apicali all'interno dei clan. Come mai? 
«Le donne hanno una strategia diversa, meno sanguinaria. Ora stanno avendo sempre più anche ruoli in strada, nella selezione della qualità della cocaina e nella capacità promozionale. Dalla Sanità ai Cristallini vedrete donne che spacciano. Sono quelle che restano fuori quando i mariti scontano le pene in carcere o quando sono latitanti. La loro capacità di gestione e la loro fedeltà sono preziosissime per i clan».

Perché un altro Sud stenta a emergere nella narrativa e nelle serie tv? Solo il male fa “cassetta” oppure, essendo preponderante, prevale inevitabilmente su ogni altra considerazione? 
«Non credo sia così e penso alla narrativa di Diego De Silva, all’ironia di Stefano Piedimonte che smonta il male ricostruendo mondi altri da quelli battuti, ai racconti di Maurizio De Giovanni che costruiscono un tempo diverso. Napoli non sembra mai avere un passato perché il presente è così bisognoso di attenzione che tutto pretende. Oppure alla Napoli di Valeria Parrella e all’Arte della felicità di Rak, che non è neanche più Napoli ma ha le caratteristiche di una metropoli o di un villaggio. Penso al teatro di Mario Gelardi, dove, dal racconto, parte sempre la speranza. Qui non c’è genere o ”cassetta” ma punti di partenza, vie di fuga, creazione...».

Terra dei fuochi: sempre convinto che la legge non sia ancora sufficiente per poter contrastare il fenomeno? 
«Quel famoso due per cento contaminato, dichiarato dalle istituzioni, resterà nella storia come una grande presa in giro. Bisogna tuttavia tenersi lontani dall’isteria del ”tutto avvelenato” e dalla fiducia incondizionata ai collaboratori di giustizia. Bisogna fare ricerca vera con organismi internazionali e anche qui il racconto deve generare interesse e la consapevolezza della necessità che vi siano bonifiche».

Esiste un professionismo dell’antimafia, per richiamarci a Sciascia? 
«So di essere accusato di questo, ma io sono un narratore e ho affrontato altri argomenti, o questi stessi, in maniera più ampia. Non sono ”camorrocentrico”. Piuttosto, molto più che i professionisti, ho sempre temuto i dilettanti dell’antimafia».
http://www.ilmattino.it

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