domenica 26 maggio 2013

Fece arrestare 25 usurai dei Casalesi: «Ora non vivo più, non ho più nulla»

di Luca Ingegneri

Da una sua denuncia alla Direzione investigativa antimafia di Padova era partita l’inchiesta Aspide. Le sue rivelazioni avevano poi contribuito ad incastrare il clan di usurai collegati al clan camorristico dei Casalesi. 
Eppure Rocco Ruotolo, cinquantatreenne irpino, piccolo imprenditore edile con residenza all’Arcella, non è ancora riuscito ad ottenere condizioni di vita dignitose. 

Nella sua veste di presidente del Comitato per i testimoni di giustizia, ha rivolto un accorato appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al ministro dell’Interno Angelino Alfano. Da tempo ha chiesto, tramite il Servizio centrale di protezione, di ottenere un colloquio, per poter discutere degli annosi problemi legati alla gestione dei testimoni di giustizia. Dalle massime istituzioni non è però ancora arrivato il benché minimo riscontro.

«Da anni vivo sotto protezione - racconta Ruotolo - ho testimoniato contro la camorra e per uno Stato di legalità, ma come tutti i testimoni, siamo circa 80 in Italia, sono in una condizione di grave disagio economico e sociale. Chiedo di poter parlare con le istituzioni affinché ai collaboratori di giustizia venga restituita una vita dignitosa con diritti e doveri di tutti i cittadini italiani».

Rocco Ruotolo non ha alcuna intenzione di vivere nascosto al mondo come fosse un boss latitante. A Padova da vent’anni, era riuscito a far decollare una piccola impresa edile. Ad un certo punto, a causa di un prestito di 300mila euro, indispensabile per ultimare la costruzione di alcune villette in un lotto immobiliare a Maserà, era finito nel mirino dei Casalesi. Aveva finto di stare al gioco e d'accordo con la polizia si era infiltrato nel clan fino a diventare vicecapo. Un anno dopo ne aveva fatti arrestare, processare e condannare 25.

«Ho regalato tre anni della mia vita allo Stato - sottolinea Ruotolo - gli ho dato la mia azienda, il mio lavoro. E oggi chiedo allo Stato di restituirmi la mia dignità. Io non mi pento di quello che ho fatto, della mia scelta condivisa con la mia famiglia: ho fatto una scelta di legalità ma ora lo Stato mi restituisca parte di quello che non ho più: la dignità di persona».

I testimoni di giustizia in Italia sono un'ottantina, tutti vivono sotto protezione, aiutati dal Servizio centrale. «Il problema non è sfamarsi - rincara Ruotolo - è sentirsi ancora delle persone. È come se ci avessero chiuso in una stanza: ci danno da mangiare ma la nostra vita è rimasta fuori. Per questo abbiamo deciso di scrivere al presidente della Repubblica e al ministro degli Interni, perché ci ascoltino e ci diano una speranza di vita».

La scelta di collaborare con lo Stato gli ha provocato pesanti conseguenze: «Mentre testimoniavo al processo - ricorda - l’azienda è stata chiusa. I miei dipendenti mi hanno aspettato per riprendere a lavorare ma i miei acquirenti oggi non vogliono più le villette e mi stanno giustamente chiedendo la restituzione delle caparre. Giorni fa sono andato a vedere il cantiere, non c'è più niente mi hanno rubato tutto. Ho lavorato tanto, come una formica e ora non ho più niente. Non voglio incatenarmi davanti al Quirinale ma dallo Stato al quale ho sacrificato la mia vita ora voglio risposte. Noi testimoni di giustizia rivogliamo la nostra dignità». 

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