sabato 15 maggio 2010

Camorra e business di prodotti alimentari: il 10% della spesa è tassa a favore dei clan

di Rosaria Capacchione

NAPOLI (12 maggio) - Tore ’e Criscienzo, capintesta dell’onorata società napoletana, era macellaio e grossista di carni. Pascalone ’e Nola era l’uomo che faceva i prezzi al mercato ortofrutticolo di corso Novara. Carmine Alfieri, come De Crescenzo, si occupava di bestiame destinato alla macellazione. Valentino Gionta, invece, che sulla carta era un pescivendolo ambulante, controllava il mercato ittico tra Torre Annunziata e Torre del Greco. Antonio Bardellino e Mario Iovine, gestivano l’import-export di pesce surgelato attraverso società brasiliane. La famiglia Nuvoletta, attraverso i suoi frutteti, riusciva a raggiungere la cifra record - per la fine degli anni Ottanta - di 1200 miliardi di lire ogni anno.

E poi ci sono i pomodori e le conserve, gli ortaggi destinati al mercato europeo e del nord Italia: tutto in mano alla camorra, attraverso il ferreo controllo della filiera agroalimentare, dalla produzione al trasporto. Dall’Ottocento a oggi, sulla tavola campana comandano i clan di periferia, i «viddani» della provincia di Napoli e i Casalesi. E nelle loro casse finisce almeno il 10 per cento della spesa delle famiglie destinata all’alimentazione. Parliamo di cifre annue seconde soltanto agli introiti garantiti dal traffico di stupefacenti.

Degli oltre 130 miliardi di euro che costituiscono il fatturato del 2009 delle maggiori organizzazioni criminali italiane, 7 e mezzo derivano dall’agricoltura. Almeno il 30 per cento di questa cifra arricchisce la camorra. E non basta. Altri 500 milioni di euro sono il provento della vendita del pane prodotto nei 2500 forni abusivi; almeno 200 milioni derivano dal controllo dei due maggiori mercati ittici, Pozzuoli e Mugnano. Il controllo dei macelli illegali frutta 75 milioni di euro, nell’ordine delle centinaia di milioni il fatturato della distribuzione di carni (bovine e suine) nelle catene dei discount. Non sfugge il latte: 0,5 centesimi di maggiorazione per ogni busta prodotta, sovrapprezzo imposto dal monopolio del trasporto su gomma. Sulla frutta e gli ortaggi incide per almeno 10 centesimi al chilo.

Le indagini fatte sul mercato ortofrutticolo di Fondi, il Mof, secondo in Europa dopo quello di Parigi e forte di un fatturato di 800 milioni di euro all’anno, consentono di quantificare, sia pure in maniera induttiva, il contributo inconsapevole che ogni consumatore dà all’economia criminale. I conti sono stati fatti anche dalle associazioni di categoria che stanno appoggiando la nascita di punti vendita a «chilometro zero».

La lunga catena che va dal produttore al consumatore fa lievitare i costi anche del 500 per cento (è il caso delle mele): il 20 per cento va al produttore, il 40 ai commercianti, l’altro 40 agli intermediari, tra i quali i trasportatori. Le indagini della Dia di Roma prima, della Squadra mobile di Caserta poi, hanno portato alla luce - oltre alle attività strettamente criminali del clan dei Casalesi e dei soci siciliani - anche le cause del maggior costo al consumo: il regime di monopolio del trasporto, del package, della distribuzione nelle catene dei supermercati. E se queste sono maggiorazioni che pesano esclusivamente sul bilancio delle famiglie e sul libero mercato, c’è da considerare che dal comparto agroalimentare la camorra lucra due volte. Per esempio, attraverso le frodi e le truffe-carosello, strumento che consente l’evasione dell’Iva. È una frode quella che interessa il mercato della mozzarella di bufala campana Dop. Accanto alle eccellenze, sul mercato finisce anche un prodotto fatto con latte proveniente dalla Romania, dalla Bulgaria, dalla Bolivia o dall’India: latte in polvere o cagliata congelata utilizzato spesso per mozzarella destinata alle catene di discount. Il consumatore paga un prodotto di scarso valore commerciale, il ricavato si traduce in guadagno quasi totale. Per la camorra, naturalmente.
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