mercoledì 10 dicembre 2014

Caserta, Versailles, Venaria e quattro numeri che dicono di che natura è oggi la crisi del Sud e quella dell'Italia.

Di seguito riporto un interessantissimo articolo di Francesco Grillo.

A volte davvero si ha la sensazione che scrivere articoli serva a poco. Non a nulla ma a poco.
Qualche anno fa capitò proprio a me di scrivere dalle colonne de Il Mattino un articolo la cui sostanza diceva che non ha più senso una qualsiasi lamentela del Sud sul proprio costante stato di (sotto) sviluppo se non si trovava un modo di mettere a valore il patrimonio artistico che queste regioni sprecano da decenni.

Il caso concreto era quello della Reggia di Caserta che, nel frattempo, è diventata il simbolo del degrado del Sud insieme agli scavi di Pompei. 
Dopo due anni la situazione è praticamente la stessa. E non se ne vedono i responsabili. 

Certo ci sono, in altri contesti, l'ultimo caso a Roma, amministratori che periodicamente tornano in galera e la guardia di finanza periodicamente fa retate. Ma nessuno paga per la fattispecie dell’inefficienza, dell’incapacità di fare il suo mestiere: fattispecie che è, in un certo senso, preliminare alla corruzione.

L’articolo sulla Reggia da parte di chi vi torna da luoghi dove riescono a dar valore anche ai sassi dei Druidi sarebbe assolutamente lo stesso.
Nel 1996, la Reggia di Caserta era al terzo posto in Italia (proprio dopo gli scavi di Pompei e gli Uffizi) per numero di visitatori: un milione e venticinquemila persone.
Nel 2013 la Reggia è al decimo posto, risulta aver perso altre due posizioni rispetto al 2012 ed essere stata visitata da meno della metà delle persone: 435,000.
Nel 2013, Versailles - da molti critici d’arte ritenuta la rivale europea di Caserta tra le grande regge del settecento – ha ricevuto 7 milioni e mezzo di turisti, un numero che è quattro volte superiore al numero di visitatori che Versailles riceveva nel 1996.

Ricapitolo perché la cosa a me sembra enorme, molto di più di tante chiacchiere che si fanno su un Paese che prima di essere corrotto appare, del tutto, incapace (e, forse, le due cose sono legate): in vent’anni la Francia ha quadruplicato i biglietti staccati e il numero di persone che possono accedere ad uno dei patrimoni dell’umanità che è il palazzo reale del Re Sole; l’Italia, nello stesso periodo, un periodo nel quale circa mezzo miliardo di persone in più sono passate dalla carestia alla possibilità di comprarsi uno smart phone e pagarsi una vacanza all’estero, è riuscita ad andare con la stessa velocità riducendo di un terzo il numero dei turisti nel suo palazzo più importante.

Il confronto è devastante, soprattutto, perché ci stiamo qui confrontano non con la Cina o con gli Stati Uniti. Ma con il Paese più simile all’Italia, quello che ci è più simile nelle difficoltà economiche e nella dimensione del deficit e del debito pubblico. 

Ma c’è un’altra cosa che c’è da dire: non tutta l’Italia sta precipitando. A Torino c’è una reggia simile – quella dei Savoia – a Venaria. Nel 1996 – quando a Caserta era al terzo posto in Italia – Venaria era chiusa. Quell’anno partì un restauro – finanziato dagli enti locali e dai privati – che ha riaperto il palazzo reale nel 2003. Oggi Venaria riceve ogni anno 600.000 visitatori e ha scavalcato Caserta (che è molto più grande e famosa).
E aldilà di tante chiacchiere è questo uno dei fatti sui quali bisognerebbe riflettere.

Come è possibile parlare di crescita senza aver prima sfruttato per intero le nostre possibilità? Come è possibile che sia ancora impossibile licenziare sovraintendenti tanto incapaci e cosa potrebbe obiettare il sindacato in un caso come questo nel quale è evidente che l’inefficienza sta sottraendo valore aggiunto al Paese, occupazione, danneggiano l’immagine dell’Italia e rendendo meno accessibile un bene che è patrimonio dell’umanità? Perché non premiare i funzionari – sempre pubblici – che contemporaneamente fanno funzionare Venaria? Cosa impedisce di introdurre domani mattina, almeno un premio di produttività per i sovraintendenti legato al numero di visitatori? Perché non possiamo fare noi come fanno in un Paese socialista come la Francia? 
E soprattutto come si può ancora sostenere che il problema del Sud siano stati i piemontesi e quello attuale dell’Italia sono i tedeschi?

In effetti però al danno si unisce la beffa. I quattrocentomila visitatori della Reggia di Caserta sarebbero ancora di meno se il Parco non fosse stato dichiarato – a differenza della Villa Borghese che è a Roma non in Svezia – museo (come le stanze del Palazzo): ciò comporta che chiunque – persino i residenti – deve pagare per entrare a fare una corsa (a differenza di ciò che accade a Villa Borghese o a Versailles). E a rendere ancora più comica la situazione c’è che gli abbonamenti per entrare sono solo per un intero anno solare perché “le macchine non consentono di emettere biglietti che valgono (ad esempio) dall’otto dicembre 2014 al 7 dicembre 2015”.
Sono le cose che ho scritto due anni fa di questi tempi. Due anni fa, tuttavia, notavo anche l’inglese assolutamente alla Totò con la quale il Ministero dei Beni culturali presentava la Reggia. Almeno questo problema è un parte risolto. Il sito in inglese è quasi scomparso (!). È rimasto solo una piccola descrizione ancora molto maccheronica che ribadisce che i “closing days” sono il Primo Gennaio, il 25 Dicembre, i giorni insomma nei quali ci sarebbe massima affluenza e massimo interesse da parte di un operatore culturale a mettere a disposizione delle persone, soprattutto dei più giovani, il proprio patrimonio.

E allora sono forse questi quattro numeri che dicono – meglio di qualsiasi altro – della questione del Nord, del Sud e dell’Italia. 
Non ci sarà crescita fino a quando non recupereremo – nel nostro lavoro e non nelle chiacchiere del Bar – orgoglio del nostro lavoro. Non ci sarà crescita fino a quando non potremo licenziare i sovraintendenti responsabili di questo scempio e, magari, affidare la Reggia a privati che siano capaci – nel rispetto degli standard di decoro e conservazione che alla Reggia non rispettano – di fare meglio. 
Non ci sarà crescita fino a quando un Presidente del consiglio che ha fatto il sindaco di Firenze non si ricorderà che è dalla riforma di “istituzioni medioevali come le sovraintendenze” (come lui stesso ebbe a definirle) che si fa ripartire un Paese stremato. Non ci sarà crescita fino a quando i sindacati non saranno messi di fronte alla scelta drastica – non nebulosa come quella sull’articolo 18 – se proteggere i dirigenti che non fanno nulla o i tanti giovani che potrebbero trovare occupazione domani da un atto di buon senso che riporti Caserta a far concorrenza a Versailles. E i cittadini casertani a fare jogging nella Reggia. 

Non ci sarà crescita fino a quando la colpa è sempre di qualcun altro e non esisterà una società civile capace di chiedere la possibilità di utilizzare le opportunità che esistono senza ridursi all’ultimo momento per andare a mendicare un posto “socialmente utile” come settimo impiegato seduto senza lavoro all’ingresso di una Reggia che non interessa più nessuno. O per chiedere all'ultimo momento all'Europa più finanziamenti che non riesce a spendere.

Sono questi – concretissimi, semplici – i “cambi di verso” di cui avremmo bisogno. Subito. E i giornali forse servirebbero per stimolare discussioni utili. Piuttosto che contemplazioni della crisi senza fine di una società ripiegata su se stessa.
http://www.ilmattino.it/

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