giovedì 20 settembre 2012

Droga, neomelodici e il mito Scarface. Vent'anni di guerra tra le Vele

di Rosaria Capacchione
NAPOLI - Per raccontare Secondigliano in tempi di faida bastano le sintetiche annotazioni della centrale operativa, con le segnalazioni di scooter che all’improvviso cambiano strada, ripiegano sui vicoli di Vanella Grassi, si disperdono aspettando che il pericolo - un’auto dei carabinieri o della polizia - sia passato. Sono le sentinelle, gli specchiettisti, gli aiutanti dei killer che chiamano la battuta e, quando è il momento, sparano.
Tra qualche mese, se saranno ancora vivi, torneranno nelle piazze di spaccio di Scampia perché la loro vita è quella, di venditori di droga che aspirano a diventare ricchi, ricchissimi, e anche potenti, ma senza prospettive differenti dall’essere camorristi, senza pensare alla politica e agli affari, senza neppure progettare un futuro lontano dal quartiere.
Agiscono con movenze ripetitive di faida in faida, più gangster che mafiosi, con Scarface come modello e i nemelodici come colonna sonora. Uguali a com’erano vent’anni fa. Sorprendente l’attualità dell’analisi contenuta nella relazione della commissione antimafia approvata il 21 dicembre del 1993, quando presidente era Luciano Violante, il primo documento parlamentare che esamina in maniera organica un’associazione criminale differente da Cosa Nostra.
Nel parallelo con la mafia, Violante aveva rilevato «la prevalente assenza di rituali, lo stato di illegalità secolare nella quale vivono gli strati più poveri della popolazione in molte aree della regione, la disponibilità ad avvalersi anche di bambini come corrieri, spacciatori al minuto di sostanze stupefacenti e trasportatori di armi».
Allora come oggi, «in Campania, inoltre, accanto alle organizzazioni camorristiche vere e proprie, operano gruppi di gangsterismo urbano e bande di giovani delinquenti; l'interscambio con queste forme di criminalità organizzata è intenso e si sviluppa secondo logiche di alleanza, di inglobamento, di confederazione. Si tratta di rapporti non duraturi, ma in alcuni momenti possono essere mobilitati eserciti di migliaia di persone».
Anche giovanissimi, anche bambini, cosa che in Sicilia era ed è tuttora impensabile. Questo è il contesto, la maretta costante per il controllo della più importante piazza di spaccio d’Europa, con la veloce scalata delle posizioni di comando e l’altrettanto veloce caduta verso il basso, quando si è scalzati dal vecchio gregario. Con variazioni significative in alcuni periodi storici. Quelli delle faide. Prendiamo la primavera del 1997, quando fu ucciso il nipote di Maria Licciardi, il «principino» Vincenzo Esposito, erede designato del clan più potente dell’Alleanza di Secondigliano. Un omicidio banale, dopo una lite in discoteca.
I morti si contarono a decine fino a quando non fu ammazzato l’assassino, Francesco Fusco, cognato di Maurizio Prestieri, oggi collaboratore di giustizia. Si racconta che fu Paolo Di Lauro, cresciuto alla scuola maranese dei Nuvoletta, a decidere per tutti, a convincere il suo amico Prestieri della necessità di quella morte per mettere fine alla carneficina. Che in effetti finì. Nel 2004, invece, in gioco c’era il passaggio generazionale, i vecchi che avevano deciso di andare in pensione lasciando ai figli la gestione degli affari di droga. Paolo Di Lauro, che di figli in vita ne aveva nove, puntò sul cavallo sbagliato, Cosimo, troppo irruente per il comando.
Nell’accordo di «fine rapporto» era previsto che gli equilibri in gioco non venissero modificati: per esempio, che Raffaele Amato continuasse a mantenere i rapporti con i trafficanti internazionali. Non a caso lo chiamavano «lo spagnolo», perché in terra iberica (dove poi è stato arrestato) aveva legami solidissimi con i fornitori di cocaina ed eroina africani e sudamericani. Amato, con il cognato Cesare Pagano e il fedelissimo Gennaro Marino erano nel cuore di «Ciruzzo ’o milionario»; Cosimo Di Lauro non ne tenne conto. Scatenò la guerra, mise a ferro e fuoco i quartieri controllati dagli altri, vinse qualche battaglia, perse la guerra. Che durò quasi un anno, fece una settantina di vittima e fu chiusa in pubblico, in tribunale, con il bacio tra Paolo Di Lauro e l’amico-avversario Rosario Pariante.
Gli «scissionisti» di Amato avevano vinto, ma è stata una vittoria effimera, durata fino alla grande repressione dello Stato che ha portato in carcere tutti i capi del cartello. Oggi la situazione è apparentemente simile. In strada ci sono i gregari dei vecchi capi, i fratelli e i cognati. Ma i rapporti di forza non sono più alla pari. Molto hanno fatto anche i pentimenti e i dissidi interni, soprattutto familiari, tra Amato e Pagano. Ed ecco spuntare quasi dal nulla le terze e quarte file, che stanno cercando di mettere le mani su un giro d’affari stimato almeno cento milioni di euro all’anno. Sono i violentissimi giovanotti di Vanella Grassi, gli stessi modi da gangster di cui parlava Violante diciannove anni fa.
Li chiamano «i girati», vogliono il mercato per sé, cercano alleati estemporanei nelle Case Celesti, in via Ghisleri, nelle Vele, nel lotto P, nelle Case dei Puffi, anche perché da soli non saprebbero come trattare con i narcos. E sparano. Ma non è affatto certo che di questa nuova faida scatenata a inizio d’anno siano le menti.
È possibile che a manovrare i fili ci siano i «vecchi», i capi dell’Alleanza, i figli di Paolo Di Lauro, i boss dell’hinterland (come Polverino o Mallardo), tutti interessati allo stesso mercato ma anche a una gestione meno violenta del territorio. Una gestione che escluda il racket ai commercianti (per riconquistare il consenso sociale) e non avvicini troppo le forze dell’ordine.
Ancora una volta vale la pena di scomodare la relazione Violante: «(la camorra) nei momenti di difficoltà perde i suoi connotati specifici e si confonde con l’illegalità diffusa. Ma quando si ripresentano le condizioni idonee riappare, sia pure con significative diversità rispetto al passato. In effetti più che di riapparizione si tratta di riproposizione, in fasi di particolare debolezza dello Stato e della società civile, di un modello criminale fondato sulla intermediazione violenta in attività economiche, legali ed illegali, che si adegua ai caratteri che queste attività assumono nel tempo.
L'immersione corrisponde, in genere, non a momenti repressivi particolarmente efficaci, ma a politiche nazionali dirette ad una integrazione dei ceti più poveri, come è accaduto durante l'età giolittiana, o a politiche di sviluppo industriale, come è accaduto in alcune fasi del secondo dopoguerra, che hanno dato a molti la possibilità di guadagnare un salario senza rivolgersi alla camorra».
 

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