di Pietro Treccagnoli
NAPOLI. Piazza del Plebiscito è di tutti. E si vede. È di chiunque voglia insudiciarla, deturparla, stuprarla. Per i vandali è accogliente e disponibile. La cartolina strappata, che fu quella dell’effimero Rinascimento napoletano, al quale è seguita una buia Controriforma con gli ayatollah dell’immobilismo a dettare regole e decreti, l’immagine che fa il giro del mondo riprodotta in milioni di scatti dei turisti è quella di uno spazio lercio, scassato, una terra di nessuno, svuotata, al centro della città. Il cuore di una Napoli che, tra sistole e extrasistole, mette in circolo solo zella. E allora diamo un’occhiata a quanto, secondo Soprintendenza ai Beni architettonici e Direzione regionale dei Beni culturali, viene negato ai napoletani e ai forestieri in occasione dei grandi eventi pubblici, come il concerto di Bruce Springsteen. Seguiteci, e se siete deboli di stomaco, portate con voi un fazzoletto per tapparvi il naso. Non esitate a varcare il cancello di Palazzo Reale dove proprio la Soprintendenza ha sede, perché quello che andiamo cercando, trovandolo senza troppa fatica, dirigenti e impiegati ce l’hanno quotidianamente sotto gli occhi, occhi che vanno aperti non solo quando le note rock di Springsteen fanno risvegliare dal lungo sonno, da una pennichella ventennale. Già entrando al Plebiscito, da piazza Carolina, si è accolti dai panni stesi alle finestre del retro del colonnato. Molto pittoresco. A coronare tutto c’è il trionfo dell’erba cresciuta rigogliosa sui tetti della chiesa di San Francesco di Paola tra le statue delle virtù borboniche. È l’assedio della parietaria, la madre di tutte le allergie respiratorie primaverili. I fazzoletti ritornano utili. L’Infopoint è deserto. Del resto, ci spiegano, è rarissimo che un turista venga a chiedere informazioni a chi è seduto dietro quella porticina quasi segreta. Piazza del Plebiscito è tradizionalmente attraversata nella direzione Trieste e Trento–Cesario Console, da via Toledo al Lungomare. Quasi nessuno s’incammina tra basoli e sanpietrini per dare un’occhiata circostanziata alla basilica. Gli basta scattare una foto da lontano. E via, è fatta. Perché, avvicinandosi, il fascino svanirebbe, schiacciato dal peso delle scritte indecenti sulle colonne e alle pareti. Davanti alla chiesa sono parcheggiate quattro auto, compresa una Porsche blu. C’è un matrimonio. All’uscita, tra il lancio dei petali, la sposa in abito nuziale è obbligata a farsi fotografare tra le indegne ed eterne scritte spray: «Manu e Genny 2009» (‘sta roba è lì da quattro anni) oppure, a piacere, «Viva Inter» o «Inter merda» (neanche fossimo a San Siro). Tutto lavoro supplementare per i fotografi che devono mettere mano a Photoshop per ripulire le immagini. E fate attenzione a non inquadrare le due statue equestri che stanno messe pure peggio. Il colonnato sembra la location di un film neorealista: Napoli anno zero. Porte di legno sbarrate, vandalizzate, reti sotto il soffitto a proteggere i passanti dalla caduta di calcinacci, mura gonfie, marce di umidità, in metastasi, chiazze di urina in ogni angolo, marmi spezzati e scritte scritte scritte, nomi nomi nomi, date date date, zella zella zella. Persino i leoni, recentemente ripuliti, sono di nuovo ricamati di scemenze. Tutti i bambini napoletani, la prima volta che hanno guardato la sfilata dei sovrani sulla facciata di Palazzo Reale si sono sentiti raccontare la scenetta dei quattro re, che va riportata, per i pochi che non la conoscono, con la medesima fanciullesca esplicitezza usata dai genitori. Ebbene, Carlo V d’Asburgo (la statua nella prima nicchia a destra dell’ingresso principale, guardando l’edificio) punta il dito a terra, indicando uno spazio indefinito. «Chi ha fatto pisciato là?» chiede. Carlo di Borbone, accanto a lui, si schermisce: «Non sono stato io». L’impetuoso Murat mette la mano sul petto gonfio e risponde enfatico: «Sono stato io». Ultimo, Vittorio Emanuele II di Savoia, con la spada sguainata, sancisce: «Tagliamogli uccello». Pene da ayatollah, senza dubbio. Ma, di questi tempi, i monarchi se la passano male. Proprio a Carlo V da anni è stato spezzato lo scettro. E Alfonso d’Aragona ha le dite di una mano mozzate dalle pallonate. Essere di marmo a Napoli può diventare una condanna. Immobili loro, per costituzione artistica, immobili chi li deve salvaguardare, per costituzione burocratica. Di urina in compenso ce n’è quanta ne volete. Dentro, fuori e accanto. Di infissi rotti, pure. Sulla facciata del Palazzo, all’interno dei cortili. Ce ne sono persino ammucchiati, sotto un portico, accanto a due storiche vasche da bagno di marmo abbandonate e decorate con guano di volatili e pacchetti vuoti di Marlboro. Palazzo Reale di regale ormai ha ben poco. Di realmente triste ha, invece, tanto, assai. Anche qui dal soffitto dei portici vengono giù calcinacci. Ma soprattutto tra portici e cortili è un viavai di auto e moto. Hanno dovuto mettere un minimo di segnaletica stradale, quasi fosse un autodromo e non un monumento storico da proteggere. Cartelli con il divieto di sosta (sotto ai portici), piccoli divieti di accesso (in cortili dove, invece, ci sono auto, furgoni e camion) e pure uno specchio di quelli che si usano per evitare incidenti nelle curve pericolose, per scarsa visibilità. Benvenuti a Maranello.
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